Dieci anni sono passati. Probabilmente niente è più uguale a prima.

La mia esperienza a Haubi non l’ho vissuta insieme a un gruppo, ma da solo. Probabilmente questo mi ha privato di alcune esperienze che hanno costituito il gusto e il piacere dei tanti viaggi dei Rafiki nella comunità Warangi, ma mi ha consentito di vivere a fondo tutto quello che sono riuscito a comprendere.

Sono tornato da Haubi come membro accettato di una famiglia di cui per un breve lasso di tempo avevo condiviso gioie e dolori. E questa famiglia mi è rimasta nel cuore nella sua totalità, segnandomi per sempre nell’anima.

A chi ripeterà queste esperienze la raccomandazione è di vivere questi momenti con il rispetto di un ospite, senza fraintendere mai il bisogno di queste persone con la volontà di accettare tutto ciò che vogliamo dare e soprattutto di andare là, consapevoli che gli elementi socio-ambientali appartengono a un’altra cultura e la prima responsabilità è di non divenire un pericolo per noi stessi e gli altri.

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Dieci anni fa Haubi aveva bisogno di molte cose. Il Gruppo aveva avviato la costruzione di pozzi e sosteneva ristrutturazioni scolastiche. Nel villaggio le risposte mediche efficaci si limitavano all’attacco malarico, la febbre tifoidea e in certi casi al parto delle puerpere. L’ospedale più vicino era a Kondoa. E lì, senza danaro contante e assidua presenza familiare, il malato non veniva né curato né nutrito. Posto che l’arrivarci in tempo fosse stato un problema risolto.

E tuttavia una comunità che sopravviveva a disgrazie a cadenza settimanale ti accoglieva con la gioia e l’orgoglio di averti dentro casa. Celebrava ogni attimo dell’esistenza con gioia e spontaneità, serbava valori familiari che i nostri anziani non sono più stati in grado di tramandarci e tentava infine un cortese colloquio con te per saperne di più di cosa c’era nella società dei Wazungu.

Me ne andai "unto" da interiora di mbuzi (capra) e battezzato con un nome locale, Isimbula, che a me venne spiegato con senso di onore e un pizzico di amarezza. L’ho tradotto in "Sterratore", colui che dissoda un terreno aspro, ma non beneficia del frutto che ne deriverà.

 

Duccio Isimbula