La mia Tanzania
di Francesca Gallo

Quando la redazione di Nero su Bianco mi ha chiesto di raccontare l'esperienza che ho vissuto in Tanzania lo scorso agosto, ho gioito, segretamente, per la possibilità di condividere, insieme a chi legge, il racconto di una vicenda personale che mi ha arricchito, e perché ho visto, in questo spazio, una preziosa opportunità, per far conoscere il “Gruppo Rafiki per la Tanzania”, e invitare a partecipare alle sue iniziative.
Il Gruppo Rafiki nasce per sostenere la realizzazione di alcuni piani di aiuto allo sviluppo per un piccolo villaggio della Tanzania, Haubi, da cui arrivano i nostri amici Nancy Mwinjo e Zoe Msami, che hanno promosso l'attività, coinvolgendo e affascinando sempre più persone. I progetti sono frutto della collaborazione tra alcune istituzioni della Tanzania, che hanno segnalato, formalmente, gli interventi e le opere più urgenti da realizzare, e il Gruppo Rafiki, che ne ha sostenuto l'onere economico, ricavando il denaro necessario, principalmente attraverso la vendita di prodotti etnici, in parte confezionati ad Haubi e, in parte realizzati dai ragazzi del Rafiki.
Il primo progetto si è occupato del riassetto del dispensario parrocchiale del villaggio, una struttura, simile ai nostri ambulatori, diretta a garantire l'assistenza sanitaria di primo soccorso e le principali analisi chimiche (per la malaria e il tifo). Il progetto di quest'anno, invece, ha interessato la ristrutturazione di una delle scuole del villaggio, Kuuta, dove studiano circa 700 bambini. A questi lavori abbiamo partecipato attivamente in 15, andando in Tanzania e lavorando a fianco della popolazione locale.
Nancy, con la sua affabile dolcezza, per tutta la durata del viaggio, ha benedetto Dio e ringraziato per quel dialogo instaurato con la popolazione perché, mi confidò: “la vostra presenza qui serve a sottolineare che Haubi e la sua gente esiste, e dire a qualcuno “Tu esisti” è una forma di amore”. Vivere, anche se per un breve periodo, in una realtà, per molti versi difficile, come quella di Haubi, è servito a comprendere i bisogni della gente e orientare le proposte future. Anche questo aspetto è un aiuto necessario, perché è difficile individuare le priorità, ad esempio, la disponibilità di acqua e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, quando non si conosce la possibilità di vivere in modo diverso o quando si è troppo impegnati a sopravvivere.
Alla gioia iniziale è seguita una sorta di smarrimento: come raccontare un simile viaggio, senza cadere nella retorica? Che parole usare per raffigurare il mondo dell'Africa più lontana ed abbandonata? Ripensare ai giorni trascorsi ad Haubi, il piccolo villaggio della Tanzania che ci ha affettuosamente ospitato, mi ha dato la soluzione che cercavo: le cose che meritano di essere comunicate e condivise, sono, principalmente, quelle che passano per il cuore e questo le rende sempre autentiche.
Posso dire che al cuore ha parlato Mwinjo, le sue parole vivifiche hanno coinvolto, animato, superato le distanze e certe paure che, naturalmente, accompagnano gli uomini che si avventurano per le strade del mondo; i suoi occhi affascinano per la bellezza, la profondità e per quella luce, che racconta la speranza con cui tutti i giovani guardano il futuro, ma in lei c'è qualcosa che va oltre l'istintiva giovinezza: il serio e responsabile impegno verso il suo paese ne fanno una persona determinata, che glorifica il Signore con la sua vita.
Ha parlato l'Africa con la sua forza struggente e la sua calma disarmante; con le sue distese immense di terra rossa, ricca e incolta, che trasmettono un senso di abbandono, lo stesso che segna l'esistenza di un continente abbandonato a sé rispetto al mondo.
Ha parlato la natura incontaminata, che non ha timore di sembrare austera e sicura della sua rara bellezza; ha parlato la vita della gente, in grado di trasformare l'abbandono in calma e tranquillità; ha parlato il calore degli abbracci, l'accoglienza, cui non siamo più abituati; il desiderio di far famiglia intorno a chi è ospite e la famiglia l'ha molto lontano.
Ha parlato quella povertà buia di chi non ha aspettative e non ha possibilità di scelta; hanno parlato le preghiere di ringraziamento a Dio per ogni cosa; ha parlato il silenzio di un luogo dove non esiste niente dell'opulenza del nostro mondo, dove si vive seguendo i ritmi del giorno e della notte dove si va a “tempo col rumore della terra che gira” dove non esistono suoni tecnologici e si può sentire il fruscio del vento, a tratti assordante.
Hanno parlato i tipici gridolini delle donne che annunciano la festa, gli odori delle spezie, la confusione del mercato, i colori della natura che si riflettono nelle vesti sgargianti delle donne, che sembra vogliano esorcizzare il dolore e la fatica e dare un tocco di fantasia alla vita troppo uguale che si vive laggiù; hanno parlato i tramonti quando il sole si ingarbuglia tra gli alberi spogli; ha parlato l'estraneità di quella parte di cielo che, insieme alle sue stelle, non appartiene al nostro emisfero, ma soprattutto hanno parlato gli occhi dei bambini di Kuuta, tristi, già pieni di responsabilità, cresciuti in fretta, ma con una voglia di sorridere, evadere, scoprire. I bambini hanno manifestato subito un euforico desiderio di incontrare la nostra diversità, toccare la nostra pelle, imparare i nostri giochi, insegnarci i loro balli con cui esprimono la gioiosa spensieratezza della loro età. Ha parlato la generosità di quei bambini che, in segno di amicizia, ci offrivano il pochissimo che avevano, compreso qualche frutto, che era il loro pasto. Queste scene, nell'attraversare il mio cuore hanno lasciato un segno profondo che niente potrà cancellare.